il linguaggio musicale

L'ISTINTO MUSICALE: COME E PERCHE' ABBIAMO DENTRO LA MUSICA

 Un sunto tratto dal Cap. IV: SULLA MELODIA

di Philip Ball - Ed. Dedalo - 2011

L'autore esplora i meccanismi che ci consentono di dare un senso alla musica e di emozionarci di fronte alla più semplice melodia come alla più elaborata composizione. In modo esauriente e documentato, l'autore avvicina il neofita e gli appassionati ai misteri di un'arte presente in tutte le culture, illuminandoci sull'incredibile lavoro che il nostro cervello compie per interpretare i messaggi sonori.

Rielaborazione del testo, scelta e inserimento dei link multidediali
a cura di L. Piazza (Settembre 2012 - Agg. Ottobre 2019)

 Note.

- In origine lo scritto è tato pensato e scritto come epub, poi convertito in html, per cui l'impaginazione risulta imprecisa.

- Molti concetti tecnici e specifici della nomenclatura musicale a cui si fa riferimento sono stati trattati nei primi tre capitoli del libro da cui è stato estratto ed elaborato questo testo.

Le melodie seguono delle regole? E, in tal caso, quali?

Appena udiamo una singola nota di una melodia, la nostra mente, inconsciamente, si mette al lavoro e comincia a fare deduzioni, ipotesi, previsioni. Come si svilupperà? La conosciamo? Quale sarà la prossima nota? Queste anticipazioni sono un elemento di cruciale importanza per la nostra capacità di trasformare una sequenza di note in una melodia, ossia in musica.

Ma cos'è una melodia? In Wikipedia è scritto che "una melodia è una successione di suoni di differente altezza e di differente durata la cui struttura genera un organismo musicale di senso compiuto". Possiamo anche dire che le melodia di un  brano musicale è il suo “motivo” o il tema che lo caratterizza; alcuni motivi possono essere difficili da seguire o meno orecchiabili di altri e  non tutta la musica possiede un motivo o un unico ampio motivo che ne costituisce il materiale melodico di base. 

Per intenderci, ad esempio,  brani come Singin' in the Rain o Nel Blù Dipinto di Blù spongono e sviluppano un unico chiaro motivo in tutta la loro lunghezza  a differenza di una fuga di Bach.

Ascolta: Toccata e fuga in Re minore; la melodia non si dipana per tutto il brano, ma si manifesta con brevi frammenti sovrapposti, spesso irrilevanti in quanto tali, così come non è evidente la presenza di motivi in Uranus della suite I Pianeti di Gustav Holst, mentre la stessa cosa non si può dire di Jupiter;  evidente è l'assenza di melodia nei brano di Steve Reich. [Ascolta: Music for 18 Musicians]

Possiamo considerare abbastanza ovvio che una “buona melodia” non è sufficiente affinché un brano musicale possa essere considerato “buona musica”: la stessa melodia dell'Inno alla Gioia (della nona sinfonia di Beethoven) eseguita dall'orchestra filarmonica di Vienna diretta da Leonard Bernstein o interpretata  dai Muppets non ottiene la stessa resa qualitativa! 

Dicevamo che una melodia è essenzialmente una serie di note di altezza, durata e ritmi diversi: alcune melodie possono essere semplici, al limite della monotonia, come molti canti dei nativi americani che sono brevi, in genere costituiti da un'unica frase musicale con variazioni minime di altezza, anche solo di un semitono o nessuno mentre, all'estremo opposto e spesso difficili da considerare come melodie, possiamo trovare turbinose raffiche di note, come nelle improvvisazioni di Charlie Parker. [Ascolta: Groovin' High (1953)] o di Ornette Coleman. [Ascolta: Free Jazz.] Queste ultime possono essere comprese ricorrendo allo stesso insieme di strumenti cognitivi (anche se a diversi livelli)  che usiamo per rapportarci con una filastrocca.

Ma perché troviamo piacevoli alcune sequenze di note invece di altre? Non c'è risposta, o meglio, non c'è risposta univoca e nessuno ha trovato una formula segreta per scrivere belle canzoni in assoluto;  il ritornello che qualcuno trova accattivante può irritare qualcun altro.

Ciò nonostante,  sembra che esistano elementi condivisi da molte melodie e la maggior parte degli autori di canzoni assimila queste “regole” inconsciamente. Alcuni principi di composizione melodica sono tuttavia più o meno formalmente codificati nella prassi di particolari tradizioni o generi musicali per fare “buona” musica. Nella vasta gamma dei compositori possiamo trovare quelli che considerano le melodie frutto dell'ispirazione proveniente da fonti mistiche o religiose, come la badessa medievale tedesca Ildegarda de Birgen [Ascolta:O dulcis Divinitas] fino all'altro estremo in cui troviamo  chi costruisce strutture sonore mediante accurata pianificazione e adesione alle regole di tipo ingegneristico, come Paul Hindemith. [Ascolta: Ottetto (1895-1963)]

Egli affermava che «le melodie possono essere costruite razionalmente e che non abbiamo bisogno di chiedere alla fate buone che donino arie celestiali ai loro favoriti». Bisogna forse ammettere  che il lavoro della Hildegard, guidato più dall'ispirazione che dalla tecnica, sembra più attraente di quello di Hindemith, ma in ogni caso la melodia e la musica in generale si basano su principi radicati nei nostri processi cognitivi. 

A molti compositori piace credere di ricavare le loro melodie da un mix di intuizione ed ispirazione, mentre i motivi che emergono sono impasti e trasformazioni  di altre che hanno sentito in precedenza.

 

Riferendoci fondamentalmente alla musica occidentale, detta tonale una melodia non nasce scegliendo delle note a caso, ma vengono selezionate da una scala seguendo delle leggi che, insieme agli accordi, le pongono  in relazione ad una nota particolare della scala stessa, detta tonica che, a sua volta, dà il nome alla cosiddetta tonalità.

Anche se ci limitiamo alle scale diatoniche formate solo da sette note, come avviene nella musica occidentale, ci rendiamo conto che esiste un'infinità di modi di sistemarle e se facessimo ricorso ad un computer per individuare anche solo una parte di tutte le permutazioni possibili, otterremmo dei risultati terribili. 

 

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Fig. 4.1. Due esempi di “melodie casuali” generate dal computer nella

tonalità di Do . [ascolta]

Sentire cosa è giusto e cosa è sbagliato

Sicuramente quasi tutti i generi di musica suscitano sentimenti come la gioia, l'allegria, la tristezza e finanche lo slancio, ma ben difficilmente possiamo dire che “fanno ridere”, anche se diversi esecutori sanno come strappare la risata,  mentre  autori come  Michael Flanders e Donald Swam. [Ascolta: There's a hole in my budget] si sono specializzati in materiale comico e autori/esecutori, come Elio e le Storie Tese. [Ascolta. Il vitello dai piedi di balsa] riescono a divertire con l'ironia, facendo anche satira, mediante parodie, intersezioni eclettiche e bizzarre di brani musicali di vari generi, con testi, spesso demenziali e/o allusivi. Ovviamente c'è differenza tra avere dei testi divertenti, fare battute in mezzo a una canzone, suonare brani classici con un “ridicolo” kazoo e invece un umorismo che derivi  dalla musica stessa.

Un raro esempio di quest'ultimo caso è stato scritto da Mozart amante delle burle, in una composizione del 1787 con un titolo che avvisa del contenuto (ascoltare le ultime batttute del finale): Ein Musikalischer Spaß

 

  (Uno scherzo musicale in Fa maggiore K 522).  

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Fig. 4.2. La stridente cadenza finale di uno «Scherzo Musicale», K522 di Mozart. [ascolta ]

Ascoltando  tutto il brano si avverte nettamente che Mozart infrange alcune regole consacrate della composizione e uno degli scherzi più evidenti  arriva alla fine dello stesso (vedi sopra Fig. 4.2) quando diversi strumenti concludono, in modo stridente e soprattutto inaspettato, in tonalità diverse fra di loro e fuori da quella dell'intera opera.

Il  senso di «correttezza o scorrettezza»  delle note è stato acquisito col passare del tempo nell'ambito della musica tonale su cui, come dicevamo, si basa quasi tutta la musica occidentale, dal primo Rinascimento a quasi tutto il XX secolo; la tonalità è data da una scala e una tonica ad essa associata e quindi ci dice quali sono le note « giuste » : nella tonalità di Do maggiore, ad esempio, sono tutte quelle che corrispondono ai tasti bianchi del pianoforte.

Ma da un esame più puntuale si evince che non esiste nessuna nota intrinsecamente sbagliata nella tonalità di Do maggiore come nella Fuga tratta dal Libro I del Clavicembalo ben temperato di Bach che, pur essendo in Do maggiore,  sono state utilizzate tutte le note della scala cromatica.

Anche nelle melodie riportate nella figura che segue (Fig. 4.3) vengono usate solo le note dei tasti bianchi, ma nessuna di esse è in Do maggiore; esse utilizzano note prelevate dalle scale rispettivamente di

Sol maggiore , Fa maggiore e Re minore

.

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Fig. 4.3. Nessuna di queste melodie, se pur  basate sulle note dei tasti bianchi, è in Do maggiore (Sono state omesse appositamente le

armature ). [Ascolta: a, b, c.]

 

Quindi non possiamo ricavare con certezza la tonalità di una brano solo dalle note della sua melodia. Le regole che usiamo per stabilire una tonalità, quando ascoltiamo un brano, hanno un carattere puramente statistico e impariamo a conoscerle fin dalla nascita per poi assimilarle intorno ai quattro anni. Perciò la tonalità  non determina quali note possono essere usate, ma le probabilità con cui vi si possono ritrovare e le distribuzioni probabilistiche delle note indicano quante volte ogni nota compare. Nella musica classica occidentale esse si presentano in modo stabile in periodi e stili diversi e le note più comuni (picchi di distribuzione) sono tutte collocate nella scala diatonica e i minimi sono tutti rappresentati da note cromatiche esterne a tale scala. Sulla base di questa distribuzione possiamo individuare una gerarchia tonale di gruppi di note: al primo posto troviamo ovviamente la tonica, cioè la nota 1, che è sicuramente la più stabile, insieme alla 3, 5, 2, poi il gruppo 4, 6, 7 e infine il gruppo delle note cromatiche.

Anche se di solito si applica solo alla musica occidentale, il termine “tonale” è appropriato per qualsiasi musica che riconosca una gerarchia che privilegia in misura diversa alcune note e ciò si verifica nella maggior parte delle culture. Si veda, ad esempio, la musica  indiana dove la nota «Sa » di una scala Thaat funge da tonica. Non si sa se i modi greci fossero vere proprie scale ma sembra probabile che ciascun modo avesse una nota « speciale », detta mese, che, essendo più frequente delle altre, nelle melodie fungeva percettivamente da tonica.

I teorici della musica dicono che le note che occupano i posti più alti della gerarchia sono anche le più stabili e che in qualche modo posseggono un potere attrattivo nei confronti delle altre note della melodia. Dato che è la più stabile di tutte, molte melodie si appoggiano sulla tonica, soprattutto nelle cadenze.

Infiniti sono gli esempi di cadenze sulla tonica [Ascolta: I Want To Hold Your Hand] dei Beatles e sicuramente ciò vale per la maggior parte degli inni più famosi e per quasi tutte le canzoni infantili, come Happy Birthday, We Wish You a Merry Chritstmas e Quarantaquattro Gatti.

Se un motivo non termina sulla tonica, l'altra nota finale più  probabile è la quinta, come, ad esempio, in Alfie di Burt Bacharach e Hal Davido, la terza, come negli « amen » che concludono gli inni religiosi. 

Possiamo anche dire alcune note sono più attive di altre e tendono a spingere le melodie verso qualche altro punto: si determina  una sorta di  «gioco di attrazioni e di spinte»  fra note in cui le più stabili esercitano un'attrazione su quelle vicine meno stabili. Nella tonalità di Do maggiore, un Fa è spinto  verso il Mi ma anche in alto verso il Sol. Un La gravita verso il Sol, ma un Si tende a salire verso il Do.

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Fig. 4.4. Tutte le note cromatiche («fuori scala») di I Do Like To Be Beside the Seaside (indicate sullo spartito con “v”) sono note di passaggio che conducono a toni più stabili. [ascolta]

Le note cromatiche sono particolarmente instabili ed è molto probabile che si spostino molto velocemente verso quelle più stabili: Fa# verso Sol, Mib verso Re o Mi; queste in genere sono « note di passaggio ». Si veda l'esempio della Fig. 4.4.

Alcuni dei primi teorici della musica paragonavano esplicitamente questa attrazione alla forza di gravità, ma se così fosse, i compositori, nel generare melodie, non dovrebbero fare niente se non seguire il flusso naturale delle note; è invece compito del musicista resistere a queste attrazioni e sapere come e quando farlo. Uno dei principi fondamentali in base ai quali la musica esercita il suo potere affettivo, eccitandoci o rasserenandoci, è quello di confermare o meno le nostre aspettative su come si svilupperà. Sicuramente se la melodia passa da una nota meno stabile a una che lo è di più, proviamo una riduzione della tensione  e se poi passiamo dalle prime alle seconde più vicine e rapidamente, ci accorgiamo appena della loro presenza come nell'esempio precedente o in altri tantissimi motivi familiari come Viva la Pappa col Pomodoro, La Bella Tartaruga, ecc. ecc.

In alcuni casi queste note «eccentriche» vengono tenute più a lungo volutamente per stimolare e rendere meno scontato il motivo come nella prima e seconda sillaba di « Ma-ri-a »  nella frase di apertura dell'omonimo tema del musical West Side Story di Leonard Bernstein in cui si sale dalla tonica alla quarta aumentata (#4), un intervallo insolito nella musica tonale. Nella musica jazz spesso le note «sbagliate» vengono nascoste passando velocemente a quelle vicine più stabili e giuste, trasformandole in abbellimenti.

Ma cos'è che ci porta a «percepire»  come giuste o sbagliate le diverse note di una scala? Cosa ci porta a ritenere che, in tonalità di Do, un Sol sia meglio di un Fa#? Se un Do e un Sol suonano bene insieme, a differenza di un Do e un Fa#, è determinato da fattori mentali innati oppure acquisiti per educazione, cultura o abitudine? La nostra mente è  predisposta naturalmente o solo sulla base dell'esposizione ambientale acquista la sensibilità di cogliere la consonanza o la dissonanza delle note valutando inconsciamente i  rapporti matematici tra le frequenze dei  toni stessi? Non è facile concludere in un senso invece che in un altro, ma è possibile calcolare una misura oggettiva della consonanza di due toni utilizzando metodi diversi che coincidono abbastanza con le «gerarchie della musica tonale» viste in precedenza, con alcune discrepanze. Ad esempio la terza nota della scala occupa un posto più alto della quarta nella gerarchia tonale mentre il rispettivo grado calcolato di consonanza indicherebbe il contrario.

Ad ogni modo sembra proprio accertato che l'apprendimento statistico guidi o addirittura governi la nostra percezione e le aspettative delle note che compongono una melodia; consapevoli o no,  si ipotizza che noi possediamo un'immagine mentale della gerarchia tonale o un modello a cui facciamo costantemente riferimento  per elaborare anticipazioni e giudizi, che si tratti di una filastrocca infantile o di una fuga di Bach.

Quando ascoltiamo un brano musicale è logico supporre che le prime note siano quelle in cui cerchiamo  immediatamente la gerarchia tonale (tonalità e tonica); in effetti molti  motivi, di semplici canzonette così come di opere importanti, iniziano con le note più “stabili” della gerarchia che rinviano immediatamente alla tonalità. Fra gli infiniti casi, ne vediamo alcuni a titolo esemplificativo: con la tonica iniziano Fra' Martino Campanaro o il primo movimento della Terza di Beethoven; con la terza  iniziano Three Bilnd Mice e il primo movimento della Sesta di Beethoven e con la quinta  vediamo London Bridge Is Falling Down e la Sonata per pianoforte n. 13 in Mib di Beethoven.

Si fa notare che anche chi è privo di formazione musicale e ignora cosa sia una tonalità è in grado generalmente di individuare il centro tonale di un brano e di seguirne la melodia senza andar fuori tonalità; questa capacità si acquisisce naturalmente intorno a 5 o 6 anni e a 7, molti bambini, sono in grado di individuare il cambio di tonalità all'interno di una canzone familiare.

Nuove regole

Quindi noi acquistiamo il nostro vocabolario tonale di base assimilando inconsciamente le aspettative statistiche create dalla musica stessa fin dalla tenera età, ma è provato che possiamo liberarci dei nostri pregiudizi e imparare un nuovo vocabolario con uno sforzo abbastanza modesto. La musica di altre culture non deve per forza suonare bizzarra, basta dargli una possibilità.

La nostra musica tonale generalmente ci ha abituato a melodie con sequenze di note piuttosto vicine e, statisticamente, i salti melodici di più intervalli vengono usati raramente a differenza dei canti yoik tipici unicamente della Scandinavia settentrionale, dove invece si presentano numerosi e inconsueti. Una giusta esposizione a tali gerarchie ci può permettere di acquisire la diversa giusta mappa tonale. Ascoltiamo un recente arrangiamento di un canto yoik, cantato da Ulla Pirttijärvi un'artista Sami della Scandinavia del Nord.

Sicuramente, per essere realistici,  gli ascoltatori occidentali incontrano maggiori difficoltà a dedurre le gerarchie tonali della musica balinese, sléndro basata sulla scala pentatonica, ascoltando solo poche melodie; occorre più esposizione e tempo.

Ma probabilmente l'aspetto più importante  della gerarchia tonale è che ci aiuta non soltanto a capire ed organizzare la musica: grazie a questo, ci aiuta anche a percepirla in quanto tale; ricordiamo che le musiche casuali generate dal computer non suonavano affatto musicali perché ignoravano le probabilità con cui le note si presentano nella musica tonale.

Il profilo della melodia

Sicuramente non è sufficiente attenersi solo alla distribuzione e alla gerarchia delle probabilità delle note nella musica occidentale per ottenere melodie “musicali” e non banali; esse costituiscono solo una parte delle regole del gioco e sono proprietà superficiali della melodia, proprio come la distribuzione dei colori nei quadri di Van Gogh o Rembrandt. Queste caratteristiche non hanno di per sé informazioni o valenze artistiche. Tutto quello che apprezziamo in una melodia deriva dai rapporti tra gli elementi che la costituiscono e dal contesto che costruiamo per essi a partire dalla conoscenza e dalle aspettative con cui corrediamo l'esperienza della sua percezione.

Abbiamo già visto alcuni espedienti per creare aspettative relativamente agli intervalli di altezza o intervalli melodici tra note successive: alcuni sono più comuni altri e, in linea di massima, più un intervallo è ampio e meno è utilizzato. le melodie tendono a procedere uniformemente su e giù per le scale musicali. In Do maggiore, ad esempio esistono più probabilità che un un Do sia seguito da un Re subito sopra piuttosto che un Fa. Analogamente, un Sol è più facile che sia seguito da un La o da Fa piuttosto che un Do. Una probabile ragione è meccanica. La maggior parte della musica in tutto il mondo è vocale, e gli intervalli di altezza ridotti sono più facili da cantare di quelli ampi; in una certa misura possiamo anche dire sono più facili da eseguire con gli strumenti musicali evitando eccessive escursioni con le mani sulle tastiere. Ma c'è anche una ragione meno ovvia ed utilizzata quasi sempre inconsciamente dai compositori che è di natura cognitiva, i cui principi si rifanno alla psicologia della Gestalt; un intervallo ampio rende più difficile riconoscere una sequenza di note come un insieme coerente, come un'entità acustica unificata (se ne parlerà più approfonditamente in un altro capitolo).

Ma se usassimo sempre intervalli brevi la musica risulterebbe abbastanza noiosa e scontata. Infatti gli intervalli ampi sono meno comuni ma non rari. Pensiamo alla prima linea (vedi le figure 4.5a e 4.5b) di Over the Rainbow o a quella di Alfie. La sillaba «Some-» cade su un Mib sopra un Do centrale e subito dopo «-Where» s'impenna verso l'ottava sopra; un salto, quest'ultimo,  non molto frequente nella musica popolare moderna. Un salto simile si trova anche all'inizio di Singin' in the Rain. Questi intervalli ampi vanno tenuti sotto controllo per evitare che la canzone assomigli ad uno jodel [ascolta]

 Uno dei metodi seguiti nella composizione è quello della «ripetitività», cioè di non usare tali intervalli in modo isolato, anche  se non eccessivo, per dare una sorta di coerenza o caratteristica alla melodia del brano. Infatti il salto di ottava di «Somewhere» si ripete, anche se non esattamente, in «way up» e «ther's a»; un andamento simile lo troviamo in Alfie. (Fig. 4.5 a e b) 

Un altro trucco usato per inserire tali intervalli è quello di farli cadere, sospendendo il flusso melodico per un attimo su note più lunghe della maggior parte delle altre, quasi per  “dare il tempo” al cervello di “afferrarlo”.

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Fig. 4.5(a).  Salti di altezza in Somewhere Over the Rainbow

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Fig. 4.5(b). Salti in altezza in Alfie.

Salti e archi

Proseguendo velocemente nell'analisi dei profili melodici, si riscontra, come dato di fatto, una inversione post-salto, cioè dopo un intervallo ampio, come quelli visti in precedenza, spesso troviamo un'inversione di direzione della melodia verso note più basse. Ma non bisogna generalizzare eccessivamente. Si può osservare un altro principio organizzatore della melodia secondo cui gli intervalli di altezza piccoli sono seguiti in genere da altri che vanno nella stessa direzione. A livello episodico, anche questo sembra plausibile; un esempio lo troviamo nel Rondò in Re maggiore K485 di Mozart anche se, dal punto di vista statistico, sembra valere prevalentemente per le linee discendenti e non per quelle ascendenti.

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Fig. 4.6. Nel tema principale del Rondò in Re maggiore di Mozart, ad esempio, trentotto dei cinquanta intervalli di terza maggiore o più piccoli sono seguiti da altri. [ascolta]

Intere frasi musicali presentano un profilo caratteristico; uno dei più comuni è l'arco melodico in cui le note salgono e poi ridiscendono, non sempre in modo perfettamente omogeneo, ma percettibilmente. Lo troviamo in ogni genere, da Twinkle Twinkle Little Star, all'Inno alla Gioia di Beethoven, dai canti gregoriani. Es. Adoro Te Devote by St. Thomas Aquinas, a molti canti popolari occidentali. Altre melodie rivelano una gerarchia in cui un arco grande contiene altri archi più piccoli, come in We Wish You a Merry Christmas.

 

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Fig. 4.7. L'arco melodico in Twinkle Twinkle Little Star e la sua ripetizione in We Wish You Merry Christmas. Quest'ultima partitura presenta inoltre un arco complessivo in cui sono inseriti gli altri. [ascolta a, b]

Non conosciamo il motivo per cui l'arco melodico è usato con tanta frequenza; un'ipotesi può portarci a pensare che, siccome molte melodie iniziano e finiscono con la tonica per facilitare l'individuazione della tonalità e la stabilità  nella chiusura, allora, spostandoci anche per intervalli di altezza ridotti e per  iniziare e chiudere nello stesso punto, la soluzione più semplice è un arco, ascendente o discendente. Sembra che ci sia una preferenza per gli archi  ascendenti, che si muovono verso le note chiamate «alte» e più precisamente le note con frequenze più acute. Bisogna precisare che i concetti spaziali di «alto e basso»  applicati alla musica, che qualcuno ha  associato alla forza gravitazionale che attira verso il basso gli oggetti (le note) dopo che sono lanciati verso l'alto, è puramente convenzionale. Per i Greci le note «basse» (nete) erano quelle con la frequenza più alta, perché venivano suonate su corde che si trovavano più in basso sulla kithara.  

É plausibile che, data la prevalenza della musica cantata, la preferenza per gli archi crescenti derivi dalla somiglianza con l'andamento del discorso: in molte lingue le frasi terminano con toni discendenti, a imitazione del modo in cui le madri parlano ai bambini quando cercano di tranquillizzarli.

Come dare respiro alle melodie

Chi pensa che suonare velocemente sia sufficiente per diventare bravi musicisti è in errore. I virtuosi Charlie Parker, [ascolta: Lover Man] o Jimmi Page [ ascolta: mix di assoli] possedevano una notevole fluidità di suono e sapevano produrre “raffiche di note” a non finire, ma sapevano anche come rendere queste ultime coerenti fra di loro, come «frasi di un pensiero musicale» più ampio  e sapevano dare il giusto «respiro» ai loro assolo. Si può fare il paragone con il linguaggio musicale in cui la struttura delle frasi e dei periodi fornisce un importante meccanismo del significato sintattico: mettiamo in relazione i pensieri tramite  i termini che li collegano per rendere compiuto il significato. Esempio: «potrei andare a fare una passeggiata» se «fuori non piove». Si tratta di due frasi che mettiamo in relazione per esprimere un pensiero. Nella musica si trovano  strutture simili. Ascoltiamo Per Elisa di Beethoven.

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Fig. 4.8. L'articolazione del fraseggio melodico in Per Elisa di Beethoven.[ascolta ]

I compositori, in genere, facilitano la nostra percezione usando frasi brevi, articolate e continue, intervallate da pause, ma non si tratta solo di suddividere delle melodie in blocchi, le frasi vanno fra di loro collegate. Nell'esempio qui sopra analizzato (Fig. 4.8), la seconda frase è una risposta alla prima, ma il discorso non si completa del tutto se non nella terza frase, che chiarisce la seconda.

Ascoltando brani con strutture sintattiche complesse, a causa della nostra tendenza a porre un ordine al flusso delle parole e agli stimoli esterni in generale, e dato che i confini musicali non sono sempre così definiti come nel linguaggio verbale, tenderemo a percepire delle suddivisioni nelle frasi musicali e a inserire degli «scatti» sui punti di separazione delle frasi dove creano meno disturbo per la sintassi, a volte anche facendoli percettivamente «migrare» in punti in cui non sono stati effettivamente suonati (si veda l'esempio qui sotto riportato).

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Fig. 4.9.  Nell'esempio (a), in generale, gli ascoltatori riferiscono di aver udito sulla nota 4 lo scatto prodotto in corrispondenza della 5 della seconda battuta, il che implica cheè stata percepita una cesura tra 4 e 5. Il rigo viene suddiviso mentalmente come se fosse simile a quello riportato nell'esempio (b) in cui la nota lunga della seconda battuta indica la fine di una frase. [ascolta a,b]

Il fraseggio, inoltre, è strettamente collegato allo schema ritmico della musica, argomento cui è dedicato uno specifico capitolo. Suddividendo la musica in battute stiamo già effettuando una segmentazione in blocchi che dà un ritmo con un respiro naturale. Quella del «respiro»  sembra l'analogia più corretta, soprattutto nella musica vocale. La lunghezza delle battute costituisce una cornice intorno al «presente musicale», nel senso che se il tempo è troppo breve non si ha la sensazione di una frase articolata, con un inizio e una fine; se è molto espanso, abbiamo difficoltà verso la fine a ricordare cosa è accaduto all'inizio, proprio come accade nelle frasi lunghe. Quindi la serie di battute, «finestre sul presente», dà alla musica una specie di pulsazione, anche in assenza di un ritmo regolare o di un metro pronunciato, che ci permette di organizzare percettivamente ciò che udiamo. Una musica che mette a repentaglio questa suddivisione può risultare difficile da seguire, come certe composizioni di musica atonale; ascolta: Karlheinz Stockhausen: Intuitive Music

La frammentazione può essere voluta dal compositore per creare intenzionalmente confusione: un flusso di note sconnesso può indurre ad un ascolto meditativo, tipo trance, o essere semplicemente noioso (si affronterà l'argomento in un successivo paragrafo). 

La canzone rimane la stessa

Gran parte di quello che riceviamo dalla musica dipende dalla nostra capacità di estrarre strutture da sequenze di note: individuiamo schemi e legami, allusioni ed abbellimenti. L'ascolto della musica quindi si basa sulla memoria; diamo un senso a ciò che udiamo inquadrandolo nel contesto di quanto abbiamo udito in precedenza. Non dobbiamo però pensare di avere una «casella mnemonica» in cui gettiamo una melodia intera, nota per nota. Piuttosto, dicevamo, immagazziniamo schemi e strutture nei vari periodi e con gradi differenti di fedeltà che svaniscono in proporzioni variabili. Il processo inconscio con cui uniamo le note le une alle altre, usando collanti come piccoli intervalli o una comune tonalità, viene chiamato chunking e fa sì che percepiamo, codifichiamo e ricordiamo la musica come insiemi organici, anche se complessi, non fatti di singole note, poste in semplici sequenze. Così, quando ascoltiamo una nuova melodia, udiamo ogni nota alla luce di molti elementi che ricordiamo: qual era la nota precedente, se l'andamento è ascendente o discendente, se abbiamo già sentito una certa frase (o una simile), se è come risposta alla frase precedente o un'idea tutta nuova, ecc. Ricordiamo una tonalità e qualsiasi indizio di cambiamento, possiamo ricordare se si tratta di un particolare parte di un opera e ricordare altre opere dello stesso autore e addirittura di diversi interpreti. Possiamo ricordare molte cose, ma quanto accuratamente?

Esistono dei limiti neuronali, ad esempio, anche nella registrazione e memorizzazione a breve temine delle altezze dei toni, se sono  soprattutto separati da intervalli temporali relativamente lunghi. Questa caratteristica percettiva sembra essere un «modulo» prodotto dall'evoluzione non a scopi musicali: distinguere tra altezze diverse e in una certa relazione fra loro, anche temporale,  è stato importante per la sopravvivenza, sia per comprendere un discorso e l'intonazione emotiva, sia per riconoscere i richiami degli animali e altri suoni ambientali.

Il «profilo»  di una melodia, come abbiamo già visto, cioè il modo in cui essa sale e scende di altezza, è uno degli elementi più importanti per la sua memorizzazione e il suo riconoscimento. Anche i bambini  che cominciano a cantare intorno ai diciotto mesi canzoncine spontanee e spesso buffe, producono in genere brevi frasi con un profilo identico e ripetuto, anche se prive di un centro tonale. Può accadere che gli stessi adulti, nel ripetere una melodia poco familiare, non prendano nemmeno una nota giusta, ma ne colgano il profilo di base (senza trascurare comunque l'aspetto ritmico). Motivi noti possono rimanere riconoscibili anche quando il profilo melodico viene compromesso nella scala delle altezze, se attenuate  o distorte, quando queste però rimangono coerenti nell'andamento.

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Fig. 4.10. Canzone di un bambino di trentadue mesi trascritta approssimativamente secondo la notazione convenzionale. [ascolta ]

Per contro, se le note giuste di una melodia conosciuta vengono suonate in ottave diverse a caso, alterando in questo modo il profilo melodico, in genere diventa molto più difficile riconoscere il motivo (ascolta il seguente esempio).

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Fig. 4.11. Il profilo melodico di Mary Had a Little Lamb è stato alterato da traslazioni di ottava; molte persone non riescono, o riescono a fatica, a riconoscere  il motivo. [ascolta ]

Brevi frammenti melodici dal profilo caratteristico sono spesso usati come unità architettoniche nella musica complessa.

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Fig. 4.12. Le sequenze di toni si ricordano con più precisione quando sono raggruppate in modo da rappresentare regolarità che si colgono più facilmente all'ascolto, come nel caso della ripetizione di un profilo melodico. La sequenza in (a) si ricorda con più precisione se si inseriscono delle pause come in (b), sottolineandone il profilo identico. Se invece le pause interrompono la struttura ripetitiva, come in (c), diventa più difficile ricordare: la sequenza «ha meno senso».[ascolta ]

Il profilo ripetitivo ascendente della melodia (b),  nel precedente esempio, si può sintetizzare con una sorta di «andamento parallelo», un succedersi di quattro motivi, ognuno dei quali è formato scendendo e poi risalendo di un semitono a partire da ogni nota dell'accordo di sol maggiore; una regola semplice e concisa che semplifica la memorizzazione e la ripetizione della sequenza.

Un principio ordinatore della musica, quindi, è il mantenimento, anche se a grandi linee, di un determinato profilo che si ripete. Si prendano ad esempio alcuni brani: un profilo semplice, dall'efficacia devastante, è il motivo di quattro note della Quinta sinfonia di Beethoven, un piccolo passaggio accattivante che riemerge continuamente in tutto il primo movimento; troviamo uno schema ripetuto, anche se non identico, nei primi tre versi della strofa di Jingle Bells o nel  più complesso profilo della Fuga in Re maggiore di Bach dal Libro I del Clavicembalo ben temperato.

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Fig. 4.13. Andamenti esemplificativi di schemi ripetitivi nella strofa di Jingle Bells e nella Fuga di Bach. [ascolta a,b]

Diana Deutsch studiosa e psicologa della musica, docente presso l'Università della California, chiama questi profili o elementi di base  «alfabeti di note», realizzati a partire da altri alfabeti come le scale maggiori e minori e gli arpeggi (note della triade suonate in successione). Il primo movimento della Sonata Chiaro di Luna di Beethoven e il Preludio in Do maggiore di Bach dal Libro I del Clavicembalo ben temperato sono due esempi famosi di melodie costituite da alfabeti di arpeggi (vedi figura sotto).

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Fig. 4.14. «Alfabeti» di arpeggi nella sonata Chiaro di luna di Beethoven (a) e nel Preludio di Do maggiore di Bach (b). [ascolta a,b]

Musicisti e compositori ci aiutano a ricordare la loro musica inserendo somiglianze, richiami leggeri, se non ripetizioni vere e proprie, e connessioni tra diversi segmenti di materiale melodico; possiamo dire che la musica è straordinariamente ripetitiva.

Non c'è ombra di dubbio che il blues, da cui derivano molti generi musicali come il jazz,  rhythm blues, il rock and roll, il boogie woogie l'hard rock, l'hip-hop e la musica pop in genere, è una forma musicale vocale e strumentale la cui forma originale è caratterizzata da una struttura ripetitiva di dodici battute e dall'uso, nella melodia, delle cosiddette blue note. Ascoltiamo uno dei primi bluesman della storia Robert Leroy Jonson in Crossraod

 

In genere, anche nelle composizioni folk e popolari moderne, troviamo una struttura ripetitiva costante: strofa, ritornello, strofa, ecc.  Ripetizioni, anche letterali, le troviamo in brani musicali di tradizioni che vanno dal canto gutturale throat singing degli Inuit alla polka norvegese e alle danze di guerra Navajo.

Ma Leonard Meyer afferma che la ripetizione in musica  «non esiste mai psicologicamente», che non udiamo mai due volte la stessa cosa, ma la ripetizione può ripristinare uno stato d'animo, costruire una tensione crescente, fare una pausa vibrante e riprendere con un passaggio tranquillo udito all'inizio; è un trucco che nel rock è diventato un cliché e molto efficace. Si pensi, ad esempio, alle strofe riprese in Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floid dopo l'assolo di David Gilmoure alla slide-guitar, o Voodoo Chile di Jimi Hendrix dopo il prolungato e potente assolo finale. Nelle canzoni, la continua ripetizione della melodia è attenuata dai versi che fanno progredire la narrazione: è questo che ci fa continuare ad ascoltare le strutture, altrimenti formulaiche, di Bob Dylan e Leonard Cohen.

Per contro, nella musica da rave [ascolta un mix ne qawwali dei sufi e nel minimalismo di Philip Glass Terry Riley la ripetizione insistente dà luogo a un'esperienza di crescente intensità simile alla trance.

Inoltre, la prevedibilità può essere più piacevole che noiosa. La ripetizione crea aspettative e, quando queste si avverano, dà alla musica una veste unitaria, coerente e soddisfacente.

In gran parte della musica classica, la ripetizione è formalizzata. Nella forma sonata ad esempio, il materiale tematico viene presentato nell'esposizione, trasformato nello sviluppo e poi ripetuto, solo con qualche piccola alterazione, nella ripresa. Un esempio di analisi di forma-sonata: W.A. Mozart, Sonata "Facile" per Piano - I. Allegro.

La ripetizione è ancora più esplicita nella  tecnica della variazione in cui un unico tema è sottoposto  a una serie di reinvenzioni: una serie di quadri basati sulla stessa idea. La variazione è stata sviluppata in modo estremamente sofisticato durante il periodo barocco Un illustre esempio di variazioni barocche per clavicembalo è dato dalle Harmonious Blacksmith di George Friederic Händel, ma fu soprattutto  Bach a dar impulso a tale forma, i cui schemi e giochi di simmetria continuano ancora oggi a incantare musicologi e matematici. Una delle massime espressioni della tecnica della variazione la troviamo nelle monumentali Variazioni di Goldberg di Bach nelle quali è lo schema degli accordi a conservarsi. In quest'opera di vastità assolutamente eccezionale per la letteratura per tastiera dell'epoca, le variazioni arrivano a modificare l'aria iniziale in maniera molto profonda ed articolata

Si può concludere questa rapida carrellata sulla «ripetitività nella musica»  sottolineando come essa  sia pensata anche per facilitare la  «memorizzazione». Si dice che Mozart all'età di quattordici anni  abbia trascritto a memoria l'intero spartito del corale Miserere di Gregorio Allegri dopo averlo ascoltato una sola volta nella Cappella Sistina; senza nulla togliere all'indiscutibile genio di Mozart, sicuramente il Miserere, come quasi tutta la musica barocca, tendeva a ripetere le medesime formule e strutture, favorendone, appunto, la prevedibilità e la memorizzazione dopo aver ascoltato il motivo.

Spezzare la gerarchia

Nel finale del suo Quartetto per archi n. 2 scritto nel 1908, Arnold Schönberg ha preferito non indicare la tonalità. L'assenza di diesis e di bemolle all'inizio dello spartito non significava che il brano fosse in Do maggiore (o La minore), bensì che non era in nessuna tonalità: il brano era atonale o pantatonale come preferiva definirlo Schönberg. L'abbandono dell'armatura non è importante di per sé. Altri compositori, come Erik Satie [Ascolta: Trois Gymnopédies] avevano omesso in precedenza l'indicazione iniziale della tonalità, trovando più comodo annotare i vari diesis e bemolle quando si presentavano. La ragione per cui possiamo considerare atonale la musica di Schönberg non è perché fa a meno di una tonica da un punto di vista formale, ma perché lo fa in termini percettivi: non siamo in grado di stabilire su cosa si incentri e la gerarchia tonale non si applica a questa musica, essa non è una guida affidabile per stabilire quali note dovremmo aspettarci. 

Schönberg ha elaborato un suo metodo compositivo con l'esplicito scopo di eliminare tale gerarchia tonale: considerando che tendenzialmente individuiamo una tonica, come abbiamo visto in precedenza, sulla base di un dato statistico, cioè della nota più frequente, Schönberg seguiva schemi,seriale (vedi esempio partitura) e dodecafonico per assicurarsi che nessuna nota venisse suonata più spesso delle altre: ogni nota  della scala cromatica è disposta in una particolare sequenza e questa serie di dodici note deve essere suonata interamente prima che possa ripetersi, impedendo, in questo modo, a qualsiasi tono di diventare più significativo. Per creare poi varietà compositive, Schönberg ha previsto diverse regole con cui manipolare la serie originaria (inversione delle note, note suonate in qualsiasi ottava, serie retrograda, ecc.)

Nello schema originario il compositore era libero di scegliere il ritmo, la dinamica e così via; successivamente altri «serialisti» come Pierre Boulez [Ascolta: ...explosante-fixe...] hanno sottoposto anche questi parametri a limiti rigorosi. 

Ovviamente negli ascoltatori  questa musica provoca una notevole diversità di reazioni: per chi è “rigidamente” ancorato alla musica tonale e alla “previsione più o meno inconscia della prossima nota”  può risultare irritante, esasperante e noiosa perché incomprensibile; per altri l'effetto può essere piacevolmente eccitante: come tutto ciò che che confonde le nostre aspettative, stimola un ascolto attento e trasmette un senso di “tensione”, considerando che non può mai risolversi come nella musica tonale.

Ma perché Schönberg sentì il bisogno di abbandonare la tonalità? Alcuni musicologi sostengono che il compositore, più che proibire la tonalità, abbia voluto «liberarsi della dissonanza», smettere cioè di considerare cacofoniche e proibite certe combinazioni di note. Entro certi limiti, tale metodo sembra essere il punto di arrivo logico di una tendenza che si è manifestata in modo crescente nella musica per quasi un secolo, a partire dall'inizio del 1800, che ha  visto una graduale sperimentazione con il cromatismo e l'armonia non convenzionale che ha coinvolto i più significativi compositori di quel periodo. Ascolta brani esemplificativi della graduale  introduzione delle “dissonanze”, in una carrellata comparativa nel tempo, dei seguenti autori: Beethoven, Chopin, Debussy, Wagner,

R. Strauss

. Già nella Verklärte Nacht scritta nel 1899 da  Schönberg, prima di aver elaborato la tecnica dodecafonica, si trova il suono della tonalità occidentale convenzionale ormai in piena agonia: “una musica sul punto di andare in pezzi”. 

All'inizio del XX secolo, tuttavia, i compositori potevano ormai usare dissonanze, ma certamente non tutto il pubblico era ancora pronto ad accettarle: la stessa Verklärte Nacht fu contestata durante la prima nel 1902, così come la prima del Secondo quartetto d'archi sempre dello stesso  Schönberg, o della Sagra della primavera di Igor' Stravinskij opera rappresentata pubblicamente per la prima volta a Parigi nel 1913. Ma il pubblico dei concerti, in quel periodo, era spesso più ricettivo alle nuove sonorità di quanto non si creda, confermando quello che spesso lo stesso  Schönberg sosteneva, cioè che la musica era imprigionata nella tonalità, diventata uno stanco cliché ripetitivo, “il linguaggio musicale di una classe sociale compiaciuta e decadente”. 

Sicuramente era una visione che aveva delle ragioni e gli schemi compositivi in stile beethoviano di Sibelius [Ascolta: Symphony No.5] potevano suonare anacronistici, come punto morto musicale, ma può essere discutibile che la composizione dodecafonica fosse la inevitabile risposta. Senza voler banalmente contrapporre la musica di Vivaldi, sostenendo che era più orecchiabile, alla musica seriale,  è difficile negare che quest'ultima mette alla prova alcuni principi cognitivi fondamentali, visti in precedenza, grazie ai quali le note e i suoni diventano musica nel nostro cervello. La tonalità non è una «convenzione arbitraria» e l'organizzazione e le strutture gerarchiche ci forniscono il senso dell'orientamento e dei punti di riferimento per navigare lungo una linea melodica. Ci aiuta a livello della percezione e lo dimostra il fatto che i bambini di sei o sette anni riescono a distinguere meglio se una nota è stata alterata se esse sono tonali anziché atonali. Ma anche se le “linee melodiche” della musica seriale non sono “cantabili”, non possiamo dire che pertanto essa non è musica: ci sono molti altri modi, oltre alla melodia, per dare coerenza a una forma musicale. 

Possiamo, ad esempio, citare Alban Berg, allievo di  Schönberg e di Webern, che, pur usando le tecniche atonali, dispone la serie delle note secondo un ordine che crea un'autentica sensazione di melodia, malgrado l'assenza di  qualsiasi centro tonale su cui essa potrebbe poggiare: si ascolti la sua Lyric Suite (1925-1926).

Ma la serie è solo un insieme organizzato di note, mentre una vera melodia, dal punto di vista percettivo,  mostra una qualche logica nel modo in cui una nota fa seguito a un'altra, una relazione fra ciò che è successo prima e quello che accadrà dopo. In questo senso è un'elaborazione, esattamente come il linguaggio verbale o filmico non sono semplici permutazioni di parole o immagini. Non è scontato che con queste caratteristiche una melodia abbia un «un buon motivo», anche se è cognitivamente coerente. Le regole compositive seguite per trasformare le sequenze di note nella musica dodecafonica, come la trasposizione, la  retrogressione, l'inversione e lo spostamento di ottava, cambiano il profilo melodico ma che hanno valore come  «principio compositivo», che agiscono nella mente del compositore, ma non in  quella dell'ascoltatore: sapere che una sequenza di note è l'inversione di un'altra non significa necessariamente sentirla. La serie di note non è tanto un'idea musicale, quanto una serie di atomi musicali. 

La preoccupazione del compositore seriale “puro”, proprio per la natura stessa della serialità, non è quella di preoccuparsi di ciò che sente l'ascoltatore ma di diventare una sorta di “dama cinese” per assemblare le note; un efficace esempio è Le Marteau sans Maître di Pierre Boulez, del 1954 in cui troviamo l'assenza di un'organizzazione intellegibile delle altezze (e anche del ritmo).

può concludere questo capitolo con la considerazione che un brano musicale, anche se risulta immediatamente di difficile comprensione,  può anche spingerci verso nuove forme di ascolto e di composizione (e ad allontanarci da quelle improduttive). Può aiutarci a udire di più, e meglio.